samedi 30 octobre 2010

La guerra e lo spettacolo

L’orchestrazione della guerra del Golfo fu una dimostrazione luminosa di ciò che i situazionisti chiamano lo spettacolo — lo sviluppo della società moderna pervenuta allo stadio in cui le immagini dominano la vita. La campagna di relazioni pubbliche fu altrettanto importante della campagna militare. Il modo in cui avrebbe giocato questa o quella tattica nei mass media diventò una questione strategica principale. Non era molto importante che i bombardamenti fossero realmente “chirurgici”, purché la copertura lo fosse; se le vittime non comparivano, era come non ce ne fossero. L’effetto Nintendo” ha funzionato così bene che i generali euforici hanno dovuto mettere in guardia contro un eccesso d’euforia generale, per timore di un ritorno di fiamma. Le interviste di soldati nel deserto hanno rivelato che essi dipendevano, come chiunque altro, quasi completamente dai mass media per sapere ciò che si presumeva stesse accadendo. La dominazione dell’immagine sulla realtà è stata percepita da tutti. Una parte importante della copertura mediatica era dedicata alla copertura della copertura; nello spettacolo stesso furono presentati dei dibattiti superficiali su questo nuovo grado raggiunto dalla spettacolarizzazione universale istantanea ed i suoi effetti sullo spettatore.
Il capitalismo del XIX secolo alienava l’uomo a sé stesso alienandolo dai prodotti della sua attività. Quest’alienazione si è intensificata con la mutazione progressiva di questi prodotti in “produzioni”, che contempliamo passivamente. Il potere dei mass media è soltanto la manifestazione più evidente di questo sviluppo; fondamentalmente lo spettacolo copre tutto ciò che si è trasformato, dalle arti fino agli uomini politici, in rappresentazioni autonome della vita. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini” (Debord, La società dello spettacolo).
Oltre ai profitti legati al commercio delle armi, al controllo del petrolio, agli intrighi del potere internazionale e ad altri fattori che sono stati così ampiamente discussi che non è necessario ritornarvi qui, la guerra è stata terreno di contrasti tra le due forme di base della società dello spettacolo. Nello spettacolare diffuso la gente si ritrova persa in mezzo alla varietà di spettacoli, di merci, di ideologie e di stili concorrenti, che sono offerti al loro consumo. Lo spettacolare diffuso proviene dalle società dove regna la pseudo-abbondanza (l’America è il prototipo e resta sempre il leader mondiale incontrastato della produzione di spettacoli, nonostante il suo declino d’altronde); ma si propaga anche nelle regioni meno sviluppate dove è uno dei principali mezzi da cui sono dominate quest’ultime. Il regime di Saddam è un esempio della forma concorrenziale, lo spettacolare concentrato, dove la gente è condizionata ad identificarsi nell’immagine omnipresente del capo totalitario, a compensazione del fatto che sono privati praticamente di tutto il resto. Questa concentrazione delle immagini si accompagna di solito ad una concentrazione del potere economico, il capitalismo di Stato, dove è lo Stato che è diventato l’impresa capitalista unica, che possiede tutto (la Russia di Stalin e la Cina di Mao ne sono esempi classici); ma può altresì essere importata nelle economie miste del terzo mondo (come l’Iraq di Saddam) o anche, in tempo di crisi, nelle economie molto sviluppate (come la Germania di Hitler). Ma nell’insieme lo spettacolare concentrato è soltanto un palliativo rudimentale per regioni che non sono ancora riuscite a raggiungere la panoplia delle illusioni dello spettacolare diffuso, ed alla lunga finirà per soccombere alla forma diffusa, più flessibile (come è accaduto recentemente in Europa dell’Est ed in U.R.S.S.). Nello stesso tempo, la forma diffusa tende ad assorbire alcuni tratti particolari della forma concentrata.
La guerra del Golfo ha riflesso questa convergenza. Il mondo chiuso dello spettacolare concentrato di Saddam si è attenuato sotto i fuochi universali dello spettacolare diffuso, mentre per quest’ultimo la guerra serviva come pretesto e campo di sperimentazione per l’introduzione di tecniche tradizionali di potere di tipo “concentrato” censura, orchestrazione del patriottismo, esclusione dei punti di vista dissidenti. Ma i mass media sono talmente monopolizzati, talmente pervasivi e invadenti e (nonostante qualche accenno di mugugno) talmente asserviti alla politica di governo che metodi apertamente repressivi sono stati appena necessari. Gli spettatori, che potevano credere di stare esprimendo il loro punto di vista con piena indipendenza, rifriggevano la solita solfa e dibattevano le stesse pseudo-questioni che i mass media avevano infuso loro giorno dopo giorno, e come in qualsiasi altro sport adeguato allo spettacolo, “sostenevano” lealmente il proprio gruppo nazionale nel deserto, applaudendo.
Quest’influenza dei mass media si è trovata ancora rafforzata dal condizionamento intimo degli spettatori. Socialmente e psicologicamente repressa, la gente è attirata dagli spettacoli di violenza, che permette alle loro frustrazioni accumulate di esplodere collettivamente in orgasmi di orgoglio e di odio socialmente accettabili. Privati di realizzazioni effettive nel loro lavoro e nei loro svaghi, partecipano, per procura, a progetti militari che, loro sì, hanno effetti ben reali ed innegabili. Mancando di comunità autentica, si eccitano all’idea di contribuire ad uno scopo comune, fosse anche soltanto combattre qualche nemico comune, e reagiscono rabbiosamente contro chiunque osi contraddire l’immagine dell’unanimità patriottica. La vita degli individui può essere un fiasco, la società può anche decomporsi, ma tutte le difficoltà e le incertezze sono temporaneamente dimenticate da quella specie di sicurezza di sé che procura loro l’identificazione con lo Stato.
La guerra è l’espressione più perfetta dello Stato, ed il suo migliore garante. Come il capitalismo deve creare dei bisogni artificiali per le sue merci sempre più superflue, lo Stato deve incessantemente creare dei conflitti artificiali di interessi che richiedano il suo intervento violento. Il fatto che lo Stato fornisca accessoriamente dei “servizi sociali” non fa che camuffare la sua natura profonda di protettore, in altre parole di ricattatore. Il risultato della guerra tra due stati è come se ogni Stato avesse fatto la guerra alla sua popolazione che deve in seguito pagare le spese. La guerra del Golfo fornisce a tale riguardo un esempio particolarmente enorme: molti Stati si sono affrettati a vendere armi per miliardi di dollari ad un altro Stato, per massacrare in seguito centinaia di migliaia di coscritti e di civili in nome della neutralizzazione del suo formidabile e pericoloso arsenale. Le multinazionali che sono proprietarie di questi stati si tengono ora nuovamente pronte a ricavare ancora più miliardi facendo nuove scorte di armi, e ricostruendo i paesi che hanno devastato.
Qualunque cosa accada in Medio Oriente per le complesse conseguenze della guerra, una cosa è già certa: l’obiettivo centrale di tutti gli stati costituiti o in gestazione, superando i loro discordanti interessi, sarà di accordarsi nello schiacciare o recuperare ogni movimento popolare realmente radicale. Bush e Saddam, Moubarak e Rafsandjani, Shamir ed Arafat sono tutti complici su questo punto. Il governo americano, che insisteva pietosamente sul fatto che la sua guerra “non era diretta contro la popolazione irachena, ma soltanto contro il suo crudele dittatore”, ha appena dato a Saddam una nuova “luce verde”, questa volta per massacrare e torturare gli iracheni che si sono coraggiosamente sollevati contro di lui. Alcuni ufficiali americani ammettono apertamente che preferiscono il mantenimento di un regime militar-poliziesco in Iraq (con o senza Saddam) a qualunque forma d’indipendenza democratica che potrebbe destabilizzare” la regione ovvero potrebbe ispirare alle popolazioni vicine ribellioni simili contro i loro dirigenti.
In America, il “successo” della guerra ha deviato l’attenzione dai problemi sociali acuti che il sistema è incapace di risolvere, rafforzando il potere delle tendenze militariste fra i dirigenti e la compiacenza degli spettatori imbottiti di patriottismo. Mentre questi sono occupati a contemplare le eterne riprese sulla guerra e ad esultare alle sfilate della vittoria, la questione più importante resta quella di comprendere ciò che capiterà alla gente che non è stata ingannata dallo show.
UFFICIO DEI SEGRETI PUBBLICI
3 aprile 1991

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